La Corte di Cassazione, IV sezione penale, con la sentenza 49215/2012, in relazione al decesso di lavoratori provocata da mesotelioma pleurico, ha statuito che poiché tale patologia è dose-dipendente, sono causali, rispetto all’evento morte, tutte le esposizioni delle vittime alle polveri di amianto successive alla prima, in quanto il prolungamento all’esposizione incide sulla latenza della malattia.
Cass. Penale, Sez. 4, Ordinanza 49215 del 18.12.2012
Sul ricorso proposto da: Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte D’Appello di Genova.
Avverso la sentenza n. 2266, emessa il 7/7/2011 dalla Corte d’appello di Genova nei confronti di:
(Omissis) e (Omissis);
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Giuseppe Grasso;
udito il Procuratore Generale in persona del dott. Tindari Baglione, il quale ha concluso per l’annullamento con rinvio;
udito per l’imputato l’avv. (Omissis) del Foro di (Omissis), il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Fatto
- Il Tribunale di Massa, Sezione Distaccata di Carrara, con sentenza del 31/10/2009, condannò (Omissis), concesse le attenuanti generiche, giudicate equivalenti alla contestata aggravante, alla pena reputata di giustizia, nonchè, in solido ai responsabili civili, a risarcire il danno, da liquidarsi in separata sede, e rimborsare le spese legali in favore delle parti civili, disponendo, infine, provvisionali varie. Con la medesima sentenza il giudice di primo grado dispose non doversi procedere nei confronti del medesimo imputato in ordine al procedimento n. 2079/06 R.G. Dib., in quanto estinto il reato per intervenuta prescrizione e nei confronti di (Omissis), in quanto estinto il reato per morte dell’imputato. Riuniti più processi, ed espunta l’imputazione di cui al proc. n. 2079 di cui detto, al (Omissis) in cooperazione colposa con il (Omissis), veniva contestato, pur essendo nota da tempo la correlazione tra l’inalazione di polveri di amianto, mesotelioma e tumore polmonare, di avere, per colpa specifica e generica, permesso, rivestendo la qualità di direttore tecnico di produzione del cantiere navale (Omissis), l’esposizione alle polveri d’amianto dei lavoratori dipendenti (Omissis), (Omissis), (Omissis) ed omesso di predisporre l’impiego d’idonei ed efficaci mezzi di protezione personale e ambientale, così provocando il decesso dei primi due e lesioni gravissime ai danni del terzo, tutti colpiti da mesotelioma. Inoltre veniva elevata contestazione in relazione alla violazione degli articoli 4, lettera c, Decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 1956, articoli 19 e 20.
- La Corte d’appello di Genova, investita dell’impugnazione proposta dal (Omissis), con sentenza del 7/7/2011, in riforma della sentenza impugnata, assolse l’imputato dai reati ascrittigli per non avere commesso il fatto.
- Queste, in sintesi, gli argomenti utilizzati dalla sentenza d’appello per contrastare le risultanze di quella di primo grado: a) non poteva dirsi provato al di là di ogni ragionevole dubbio che gli operai si ammalarono a causa della condotta colposa dell’imputato, stante che i detti operai lavoravano a contatto con l’amianto ben prima che il (Omissis) assumesse il ruolo di garanzia e la malattia era stata diagnosticata in epoca recente (2004), quando ormai l’imputato si era allontanato dall’azienda; b) efficienti aspiratori non poteva reputarsi provato che avrebbero scongiurato la contrazione della grave patologia neoplastica della pleura.
- Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Genova proponeva ricorso per cassazione, corroborato da unitaria, articolata censura, con la quale viene denunziata inosservanza ed erronea applicazione di legge in relazione all’articolo 192, cod. proc. pen., nonchè manifesta lacunosità ed illogicità della motivazione ed erronea applicazione della legge penale (articolo 40, comma 2, articoli 41 e 113, in relazione all’articolo 589 cod. pen.).
Assume il ricorrente che il giudice d’appello, con lacunosa e contraddittoria motivazione, pur avendo confermato la lunga esposizione all’inalazione delle microfibre di amianto degli operai ammalatisi, mostrando scarsa conoscenza degli arresti giurisprudenziali di legittimità e, comunque, delle conclusioni scientifiche oramai consolidatesi in materia, aveva finito per confondere l’elemento oggettivo della causalità con quello normativo della colpa.
Priva di qualsivoglia appiglio dovevasi ritenere l’affermazione secondo la quale dalla mancanza di certezza in ordine al momento d’innesco della malattia sarebbe derivata la mancanza di prova del nesso causale.
Del pari erronee e frettolose dovevano reputarsi le conclusioni esposte a riguardo della prevedibilità, esclusa sol perchè la consapevolezza del collegamento tra inalazioni delle microfibre di amianto e malattie oncologiche dell’apparato respiratorio inferiore era via via maturata nel tempo, essendo ben nota da tempo la tossicità della sostanza in parola, quantomeno in relazione all’asbestosi.
Infine, l’eventuale “concorsuali lesiva della successiva azione di chi è succeduto in posizione di garanzia”; rendeva responsabile l’imputato anche dell’accertata antecedente insorgenza della malattia.
Diritto
5. l’impugnazione è fondata e, pertanto, la sentenza gravata deve essere annullata, sussistendo la violazione dell’articolo 192 cod. proc. pen., comma 1, dovendosi registrare il frettoloso precipitare nella conclusione assolutoria, senza che la sentenza di secondo grado abbia illustrato precipuamente i criteri adottati, nè dato prova dei risultati acquisiti.
Ovviamente, l’anticipata violazione della legge processuale è stata resa possibile da un articolato motivazionale quanto mai sommario, a tratti solo apparente, contraddittorio e manifestamente illogico., che ha investito i decisivi territori del nesso di causalità e dell’elemento soggettivo.
6. Quanto al nesso di causalità la Corte territoriale, ignorando, o comunque, sottovalutando il significato di plurime statuizioni di questa Corte, dalla circostanza che non fosse possibile stabilire con certezza la data d’innesco della malattia degli operai che da anni, prima che l’imputato assumesse ruolo di garanzia, si trovavano a contatto con le polveri di amianto, ha tratto l’illogica conclusione, che mancasse la prova dell’efficienza causale della condotta dell’imputato. Conclusione, questa, ancor più incongruamente rafforzata dal convincimento che il succedersi di più soggetti, nel corso degli anni nel ruolo di garanzia, non consentiva di affermare la penale responsabilità dell’odierno ricorrente.
Inoltre, ingiustificatamente apodittico risulta l’asserto secondo il quale non potevasi affermare che l’approntamento di cautele avrebbe scongiurato l’evento.
6.1. Non è controverso che le vittime per lungo tempo furono poste a contatto con le polveri di amianto. Nè l’eventuale rispetto delle previsioni antinfortunistiche (comunque non riscontrato) avrebbe potuto esonerare l’imputato dal mettere in atto tutte le cautele del caso che la pericolosità del materiale trattato imponeva, (sul punto possono richiamarsi le sentenze n. 5117/2008 e n. 33311/2012 di questa Sezione).
Allo stesso modo non ha concludenza la circostanza che i lavoratori rimasti vittima della malattia oncologica polmonare avessero cominciato a lavorare a contatto con le polveri d’amianto anche prima dell’assunzione di responsabilità da parte dell’imputato. L’esposizione successiva, infatti, potrebbe avere avuto rilevanza, per lo meno concausale, tale da giustificare l’affermazione di colpevolezza degli imputati.
Nè assume rilievo insistere sui profili quantitativi delle polveri disperse nell’aria, stante che le affezioni tumorali che portarono a morte le vittime debbono reputarsi dipendenti dall’inalazione di fibre d’amianto, non potendosi affermare l’esistenza di una soglia quantitativa al di sotto della quale il rischio venga escluso.
Al contrario di quel che pare ritenere la Corte territoriale non assume rilievo decisivo l’individuazione dell’esatto momento d’insorgenza della patologia (Sez. 4, 11/4/2008, n. 22165; Sez. 4, 24/5/2012, n. 333311), dovendosi reputare prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo assai lungo tempo di latenza.
Attingendo opportunamente alla scienza di settore (dalla quale è da attendere approfondimento conoscitivo, che tenga conto delle migliori conoscenze scientifiche del momento – Sez. 4, 1779/2010, n. 43786 -) potrà verificarsi se, come, peraltro, è stato ritenuto in casi similari da questa Corte (la già citata sent. n. 33311/2012), debba sconfessarsi l’attendibilità della teoria della cd. “trigger dose”, assumendosi, invece, che il mesotelioma è patologia dose-dipendente.
Così come chiarito nella sentenza n. 33311/2012, costituisce bagaglio di conoscenza oramai comune del giudice, l’opinione, largamente divulgata anche nella letteratura giuridica, che da una conclusione scientificamente non contestabile dello studioso (Omissis), che aveva solo voluto mettere in guardia sulla pericolosità dell’inalazione, anche modesta, delle fibre d’amianto, si volle giungere ad elaborare la tesi secondo la quale poichè l’insorgenza della patologia oncologica era causata anche dalla sola iniziale esposizione (cd. “trigger dose” o “dose killer”), tutte le esposizioni successive, pur in presenza di concentrazioni anche elevatissima di fibre cancerogene, dovevano reputarsi ininfluenti, così contravvenendo alle valutazioni epidemiologiche dell’evoluzione delle patologie tumorali, le quali non confortano l’assunto che possa giammai restare indifferente al periodo di latenza la durata e l’intensità dell’esposizione.
“Infatti, la molteplicità di alterazioni innestate dall’inalazione delle fibre tossiche necessita del prolungarsi dell’esposizione e dal detto prolungamento dipende la durata della latenza e, in definitiva della vita, essendo ovvio che a configurare il delitto di omicidio è bastevole l’accelerazione della fine della vita. Pertanto, di nessun significato risulta l’affermazione che talune delle vittime venne a decedere in età avanzata. La morte, infatti, costituisce limite certo della vita e a venir punita è la sua ingiusta anticipazione per opera di terzi, sia essa dolosa, che colposa.
L’autonomia dei segnali preposti alla moltiplicazione cellulare, l’insensibilità, viceversa, ai segnali antiproliferativi, l’evasione dei processi di logoramento della crescita cellulare, l’acquisizione di potenziale duplicativo illimitato, lo sviluppo di capacità angiogenica che assicuri l’arrivo di ossigeno e dei nutrienti e, infine, la perdita delle coesioni cellulari, necessarie per i comportamenti invasivi e metastatici, sono tutti processi che per svilupparsi e, comunque, rafforzarsi e accelerare il loro corso giammai possono essere indipendenti dalla quantità della dose.
Ciò ancor più a tener conto che l’accumulo delle fibre all’interno dei polmoni, continuando l’esposizione, non può che crescere, nel mentre solo col concorso, in assenza d’ulteriore esposizione, di molti anni, lentamente il detto organo tende a liberarsi delle sostanze tossiche, essendo stato accertato, dagli studi di (Omissis), dei quali appresso si dirà, che l’accumulo tende a dimezzarsi solo dopo 10/12 anni dall’ultima esposizione.
Dallo studio in parola (…) ben noto anche ai non addetti alla scienza di settore, il primo intervenuto in Italia, avendo operato su una vasta platea di persone, osservate per un lungo periodo (3434 lavoratori presi in considerazione per oltre cinquanta anni; seguiti dal 1950 al 1986 e poi fino al 2003), si è potuto ricavare che tutte le esposizioni alle quali il soggetto è stato sottoposto almeno negli ultimi dieci anni che precedono la diagnosi della malattia hanno avuto influenza, aumentando il rischio ed accelerando il processo maligno; che, allo stesso tempo, non è possibile determinare una soglia quantitativa e temporale di sicurezza, nè il tempo massimo d’induzione;
che sul soggetto fumatore si verifica un effetto moltiplicativo esponenziale del rischio, ben maggiore della singola somma dei due rischi, quanto al carcinoma polmonare”.
Resta solo da avvertire che le conclusioni di cui sopra debbono trovare conferma o smentita attraverso la valutazione del vaglio probatorio in concreto e, se del caso, l’ampliamento dell’area di conoscenza tecnica, mediante apporto della scienza di settore, attraverso lo strumento della perizia o la rinnovazione della stessa, se del caso con apporti multidisciplinari.
Ove la risposta dell’esame in concreto confermasse i superiori assunti sussisterebbe il nesso di causalità, invece escluso, tra l’omessa adozione da parte del datore di lavoro di idonee misure di protezione e il decesso dei lavoratori, in conseguenza della protratta esposizione alle microfibre di amianto, stante che, “pur non essendo possibile determinare l’esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul tempo di latenza (Sez. 4, 11/4/2008, n. 22165)”.
“In altri termini, se il garante avesse tenuto la condotta lecita prevista dalla legge, operando secondo il noto principio di controfattualità, guidato sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica -universale o statistica (S.U., 10/7/2002, n. 30328), l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. In questo senso l’evento doveva ritenersi evitabile.
Quanto alla cd. legge statistica, come noto, la conferma dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale non può essere dedotta automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o probabilità logica” (S.U. n. 30328 cit.)” (sent. n. 33311/012). Conclusione per raggiungere la quale potrà essere necessario, siccome già anticipato, introdurre ritualmente nell’area di conoscenza rilevante del giudice analisi tecnica delle risultanze epidemiologiche (sent. n. 43786/2010).
Quindi, verificato il fondamento del diffuso convincimento (nella comunità scientifica) che il processo carcinogenetico debba considerarsi dose-dipendente, secondo leggi probabilistiche di tipo statistico, occorrerà accertare, mediante studio dell’evoluzione clinica delle vittime, se “in sintonia con lo studio di (Omissis), il rischio decresce (anche nel solo senso che l’insorgenza della malattia si allontana nel tempo) col trascorrere del tempo dall’ultima esposizione, di talchè è facile concludere che ogni assunzione successiva aumenta il rischio”.
6.2. Quanto esposto rende irrilevante la circostanza che nel ruolo di garanzia si siano alternate più persone, tutte parimenti responsabili, in quanto concausanti l’evento.
6.3. Sbrigativa ed ingiustificatamente apodittica deve valutarsi la conclusione della corte territoriale, secondo la quale difetterebbe “la controprova che la posa in opera di aspiratori conformi alla normativa (…) avrebbe impedito l’insorgere:” del mesotelioma.
Una tale affermazione avrebbe richiesto che la Corte d’appello avesse convincentemente escluso (ma così non è stato) che la detta patologia non è dose-dipendente. Senza contare che, pur ove si dovesse giungere alla conclusione che, nel corso dei tanti anni di esposizione alla sostanza tossica la tecnica non fosse stata in grado di mettere a disposizioni strumenti di protezione collettiva ed individuale idonei ad abbattere l’assunzione delle microfibre cancerogene, ciò, concorrendo l’elemento della colpa (conoscibilità), non avrebbe esonerato i garanti, dal rimettere il loro mandato, non potendo assicurare il mantenimento in salute dei lavoratori alla cui garanzia erano preposti, ove non fosse stato loro consentito di mutare i procedimenti lavorativi, giungendo fino a sostituire l’amianto con altro, pur più costoso, materiale.
7. Parimenti censurabile appare la scarna e superficiale motivazione, intrinsecamente illogica, con la quale la Corte territoriale ha escluso la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa.
In definitiva, quel giudice ha reputato appagante aver constatato che taluni degli operai, sentiti come testi, avevano negato di aver avuto coscienza della nefasta correlazione tra l’insorgenza delle affezioni tumorali in discorso e l’inalazione delle microfibre d’amianto (percepite come polveri) e decisivo che se quella coscienza si fosse avuta, la manovalanza tutta non si sarebbe prestata, senza rimostranze, a lavorare in ambienti sì pericolosi.
Trattasi di conclusione che difetta di logica comune, scollata dalla realtà e difforme dai principi giuridici consolidati in materia di colpa per garanzia.
Escluso che possa darsi significato di sorta al silenzio degli operai, attribuibile a più fattori (ignoranza, posizione d’intrinseca debolezza contrattuale, necessità di mantenere il salario, ecc), non ha senso neppure misurare l’entità della conoscenza che avrebbe dovuto chiedersi a chi era posto in posizione di garanzia con quella degli operai.
Inoltre, le riportate opinioni del teste (Omissis) (indicato come docente d’igiene industriale), secondo le quali la certezza della correlazione amianto-mesotelioma si era avuta solo a partire dagli anni settanta del secolo scorso appare, almeno così come sintetizzata, altamente inverosimile, in quanto in contrasto con l’opinione scientifica diffusa, riscontrabile, non solo in ambito medico, ma anche giuridico.
Trattandosi di valutazioni che ben si attagliano al caso in esame sul punto possono riportarsi, anche in questo caso, le considerazioni espresse in seno alla citata sentenza n. 33311: “Risponde a conoscenze comuni maturate in epoche anche assai lontane nel tempo che l’ingestione per via aerea di fibre, particelle e polveri costituisce pericolo per la salute.
Da oltre un secolo si ha la diffusa, piena consapevolezza della specifica pericolosità dell’assunzione attraverso le vie aeree delle microfibre di amianto (Regio Decreto 14 giugno 1909, n. 442, nell’ambito di norme a tutela dei fanciulli; Legge 12 aprile 1943, n. 455, la quale introdusse l’asbestosi fra le malattie professionali). Pur vero che ai quei tempi era nota solo l’insorgenza dell’asbestosi, ma, di sicuro, la pericolosità della lavorazione del materiale in parola era ben nota.
L’evidenziazione su basi divulgative affidabili della correlazione tra assunzione di polveri d’amianto e processi cancerogeni risale al 1964 (conferenza sugli “Effetti biologici dell’amianto dell’Accademia delle Scienze, tenutasi a (Omissis)). Peraltro, nella detta occasione venne presentata da (Omissis) l’esperienza italiana. Lo stesso studioso nel 1966 e nel 1968, pubblicò in Italia su riviste scientifiche il proprio pensiero. La questione venne ripresa, con ampio approfondimento, in occasione del 34 congresso della (Omissis), tenutosi a (Omissis).
V’è, peraltro, da soggiungere che i primi studi dai quali emergeva la detta correlazione risalgono agli anni 30/40 e poi 50 del secolo scorso (in Germania). In Italia risalgono ai lontani anni 1955/1956 i primi approfondimenti resi pubblici da (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis) e (Omissis).
Le conclusioni erano del tutto concordanti: la sopravvivenza dopo la diagnosi era solitamente assai breve; l’intervallo tra l’inizio dell’esposizione e la comparsa della malattia era assai lungo; anche basse dosi erano sufficienti ad innestare il processo patologico; degli esposti solo taluni subivano la degenerazione cellulare; pur essendo vari i tipi di amianto, quasi sempre erano presenti fibre di anfibiolo e crisotilo; non si riscontrava alcuna apprezzabile causa alternativa.
Ciò posto, non può assumersi che le conseguenze nefaste sulla salute derivanti dal contatto con le polveri d’amianto non fosse circostanza prevedibile.
L’esercizio di attività pericolosa avrebbe imposto all’imprenditore l’approntamento di ogni possibile cautela, dalla più semplice ed intuitiva (proteggere le vie respiratorie con maschere altamente filtranti, imporre accurati lavaggi alla cessazione dell’orario di lavoro con cambio degli indumenti da lavoro da sottoporsi, anch’essi, a lavaggio, alla riduzione al minimo delle polveri, al loro appesantimento mediante acqua, alla loro aspirazione, ecc), alle più complesse e sofisticate, secondo quel che la scienza e la tecnica consigliavano. (…)
Reputa il Collegio che, anche a voler considerare che fosse nota solo la generica tossicità delle polveri d’amianto, causa di asbestosi, avrebbe risposto al principio di precauzione trattare con ogni cautela le polveri, che si sapevano assai sottili (e, quindi, di agevole infiltrazione e fissazione polmonare) di sostanza comunque tossica.
Questa Corte ha avuto modo di affermare che in tema di delitti colposi, nel giudizio di “prevedibilità”, richiesto per la configurazione della colpa, va considerata anche la sola possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dal suo agire, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi o ad adottare più sicure regole di prevenzione: in altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione “ex ante” dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione (Sez. 4, sentenza n. 4675 17/05/2006, massima).
Le norme antinfortunistiche che fanno obbligo al datore di lavoro d’approntare ogni misura utile ad impedire o ridurre al minimo l’inalazione di polveri non è diretta, come vorrebbero i ricorrenti, ad evitare che i lavoratori subiscano il fastidio d’un ambiente di lavoro polveroso, bensì, come appare evidente, che l’organismo dei predetti sia costretto ad inalare corpuscoli frammisti all’aria respirata del tutto estranei ad essa e certamente forieri di danno fisico.
In ogni caso, non par dubbio che la prevedibilità altro non significa che porsi il problema delle conseguenze di una condotta commissiva od omissiva avendo presente il cosiddetto “modello d’agente”, il modello dell’ “homo eiusdem condicionis et professionis”, ossia il modello dell’uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, che importa l’assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la quale esige che l’operatore si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si aspetta (Sez. 4, 1/71992, n. 1345, massima; più di recente e sullo specifico argomento qui in esame, sempre Sez. 4, 1/4/2010, n. 20047). Un tale modello impone, nel caso estremo in cui il garante si renda conto di non essere in grado d’incidere sul rischio, l’abbandono della funzione, previa adeguata segnalazione al datore di lavoro (sul punto, Sez. 4 n. 20047 cit.).
Richiamando quanto poco sopra esplicitato, deve conclusivamente ribadirsi che ai fini del giudizio di prevedibilità deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione (Sez. 4, 31/10/1991, Rezza, massima).”.
8.2. è, altresì, utile soggiungere che, come dettagliatamente chiarito da questa Corte (Sez. 4, n. 20047/2010), il Decreto Legislativo 15 agosto 1991, n. 277, stabilendo che, fermo restando il rispetto di tutte le forme di protezione individuale, fossero, comunque, vietate le lavorazioni, ove il livello di dispersione di microfibre di amianto fosse superiore a determinati parametri, non rese affatto lecito, al di sotto dei detti limiti, l’inalazione delle predette microfibre.
L’entrata in vigore della Legge 27 marzo 1992, n. 257, con la quale si vietò definitivamente la lavorazione dell’amianto, poi, non individua affatto il momento iniziale nel quale si ebbe consapevolezza della pericolosità dell’amianto. La normativa, all’opposto, segna l’epilogo di un lungo cammino di conoscenza che, come si è chiarito, da decenni, aveva denunziato la specifica, elettiva pericolosità dell’amianto.
8.3. Il possesso di elevata competenza di settore, di studi adeguati, di approfondita conoscenza del concreto contesto lavorativo e del materiale trattato, la funzione apicale, le dimensioni aziendali, la possibilità di valersi di specifiche competenze, tali da far presupporre la sussistenza di condizioni sufficienti per cogliere la specifica, elevata rischiosità delle lavorazioni svolte, erano tali da non poter ingenerare dubbi di sorta sulla circostanza che le microfibre, di cui si impregnava radicalmente l’aria (risulta accertato l’uso di spruzzatori, utilizzati per la coibentazione, che creava una nuvola di polvere), fossero sicuramente nocive, ben oltre il rischio dell’asbestosi.
9. Per le esposte ragioni la sentenza gravata deve essere annullata, richiedendosi nuovo vaglio motivazionale alla luce dei rilievi qui formulati.
Ovviamente, l’annullamento e il rinvio concernono solo l’accusa di omicidio colposo aggravato in danno di (Omissis) e (Omissis), essendo limitato ai detti capi il ricorso del P.G. di Genova.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle imputazioni di omicidio colposo in danno di (Omissis) e (Omissis), con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Genova.